Articolo pubblicato sul sito recmagazine.it
L'EDITORIALE
Tento una riflessione che vorrei fosse interpretata non come critica cruda e preconcetta ma come auspicio per non ripetere certi errori dovuti all’autoreferenzialità e alla mancanza di confronto.
In alcuni casi l’archeologia, come molta storia dell’arte, quando esce dalla riflessione e dal suo lavoro sui piani stratigrafici e acquisisce la terza dimensione, ossia l’altezza e la profondità, entra in un altro mondo passando dal bidimensionale al tridimensionale. E’ un salto importante, è un passaggio dal piano allo spazio architettonico, dal metro quadro al metro cubo e a volte, per le particolari configurazioni del sito passa oltre all’architettura, estendendosi allo spazio urbano o al paesaggio. In questi luoghi gli orizzonti culturali sono diversi, molto più estesi, esigono competenze altre, plurime e l’impostazione dell’analisi, ma soprattutto del progetto, deve essere radicalmente differente.
L’archeologo (per sua formazione) ha studiato, conosce e domina sia la storia dell’architettura sia la storia della città e dell’urbanistica antica, ma per i caratteri specifici della sua professione fortemente operativa è abituato a leggere gli strati, i sedimenti, i dettagli, i rapporti di anteriorità o di posteriorità, i depositi, i reperti e tutte le sovrapposizioni temporali che si trovano sul terreno o giacciono sul piano orizzontale.
Per certi versi analoga e opposta difficoltà la può avere l’architetto quando compie l’analisi stratigrafica delle superfici orizzontali e verticali (che ha ereditato acriticamente dagli archeologi), perché è abituato a lavorare con la terza dimensione, con i volumi, negli spazi nei quali si articolano piani nobili, ammezzati, percorsi, scaloni con il corollario delle funzioni che vi si esercitano, si pensi all’uso, alle normative, all’adeguamento impiantistico e strutturale. E’ questione di formazione, di forma mentis.
Concentrando la riflessione sul restauro e più in particolare su quel sistema di scelte che costituisce il progetto, in questi casi, quando l’archeologia alza lo sguardo e le sue azioni non si limitano al piano orizzontale di scavo ma si estendono allo spazio che copre e definisce questo piano, essa passa di scala e si “trasferisce” dal restauro archeologico al restauro architettonico. Per questo si ricorre ai lavori in equipe, nei quali la squadra si compone di diversi soggetti professionali che concorrono al progetto: archeologi, architetti, ingegneri, geologi, ecc. (ma anche questa è cosa ovvia).
Alcuni interventi recenti su piani di scavo archeologico, dopo il restauro, hanno perso la connotazione archeologica e sono diventate architetture tridimensionali suscitando un grande dibattito tra studiosi, tecnici, persone di cultura, ma anche tra i semplici turisti visitatori che si chiedono dove termina l’archeologia e dove inizia l’architettura. Questi interventi sarebbero stati un’occasione per uno straordinario progetto di restauro architettonico se solo il problema fosse stato affrontato con un confronto critico, con una mentalità più allargata.
Quelli che di seguito illustro brevemente sono stati interventi su monumenti di grande rilevanza archeologica, che per certi versi sono diventati modelli, e che si collocano in una sorta di terra di nessuno nella quale l’archeologo, con la sua visione specialistica, non è riuscito a governare il più vasto problema architettonico e l’architetto restauratore si è adeguato alle volontà del primo.
Non bisogna ricorrere all’istanza psicologica di Roberto Pane per giustificare i desiderata dell’archeologo, che vorrebbe rivedere gli oggetti del suo scavo rimessi nelle condizioni originarie, atti a ridare al pubblico ignaro un’idea di com’era il rudere qualche millennio fa e della sua bellezza.
Nascono così ipotesi e poi azioni di ricostruzione, di ripristino, di (re)invenzione, spesso identificate erroneamente con il termine anastilosi, che non si limitano a rimettere in piedi resti di colonne cadute ma si estendono al completamento di murature, coperture e solai. E’ indifferente che queste siano formalmente visibili e diverse rispetto agli originali, o che abbiano aspetto analogico e non veristico, che siano semplificate o rettificate, sono comunque nuove architetture a volte anche imponenti, prevaricanti sul contesto archeologico, architettonico, urbano e paesaggistico.
Per il Restauro Architettonico queste azioni di ricostruzione o di ripristino analogico sono culturalmente superate, e oggi semplicemente non si possono più fare, sono concetti acquisiti, condivisi e digeriti da tempo. Salvo chi si attarda ancora su posizioni superate legate all’originaria bellezza, ma sono posizioni minimali, l’orientamento attuale è chiaro su questo. Ne danno conferma i documenti internazionali, nazionali e le varie Carte del Restauro che approfondiscono anche i caratteri dell’anastilosi e soprattutto i suoi limiti.
Su questo tema, ossia sulla legittimità di estendere il concetto di anastilosi alla ricostruzione di intere architetture, la cultura del restauro architettonico è chiara, pur mantenendo al suo interno diverse anime, diverse tendenze e diverse impostazioni teoriche che da sempre la caratterizzano. Sull’altro tema, quello del rapporto archeologia-architettura, e quindi di come ci si pone quando il progetto perde la connotazione meramente archeologica e diventa un progetto di restauro architettonico, urbano o paesaggistico, la riflessione teorica langue, le esperienze progettuali sono carenti e i risultati operativi dimostrano un livello insoddisfacente.
Il problema è tutto qui. Il primo, l’archeologo, interviene con quegli strumenti culturali che gli sono propri e perfettamente adatti a gestire l’intervento sul rudere o sul reperto ma faticano a estendersi oltre il piano orizzontale. Cosa significa faticano? Significa che si affidano a concetti, procedure o culture nate in determinati contesti (archeologici appunto) e che cambiando scala dimostrano subito la loro inadeguatezza. Il secondo, l’architetto restauratore, invece, si ritrae perché ritiene sia un settore riservato a competenze altre, quelle dell’archeologo appunto. Un amico ha notato in proposito che gli architetti sono mediamente più ignoranti degli archeologi e per rimediare a ciò forse basterebbe studiare.
In questa terra di nessuno, dove si creano sui reperti storici degli spazi architettonici costruiti in vario modo - ossia definiti da elementi strutturali posizionati o ri-posizionati forzando spesso il concetto di anastilosi, dove si costruiscono volumi con elementi che possono essere storici perché provenienti da scavi o di nuova formazione - è facile produrre risultati discutibili, che si pongono al di fuori dalla cultura del restauro architettonico, quando invece dovrebbero esserne all’interno, perché di architetture si parla.
Solo un inciso sulla specializzazione in archeologia dell’architettura, un approfondimento utilissimo per capire e studiare i reperti architettonici ma è altra cosa, tutt’altra cosa, dalla specializzazione dell’architetto in uno dei settori dell’archeologia. Il primo - l’archeologo - capisce e studia per catalogare, il secondo - l’architetto - lega la conoscenza al progetto di architettura; è questa la fondamentale differenza tra le due figure professionali. L’operatività ossia il progetto, il progetto di restauro e il progetto di restauro di architetture archeologiche è squisitamente pertinenza dell’architetto e dell’ingegnere con la consulenza fondamentale e imprescindibile dell’archeologo.
E’ questo un tema molto attuale perché crescono i casi che si collocano in questa terra di nessuno, dove non valgono i criteri, pur con ampia e diversificata interpretazione, del restauro architettonico, dove sono larghe le maglie di quello archeologico e le azioni sono le più diverse, le più contraddittorie, spesso con risultato fuori scala. E le critiche sono feroci.
Alcuni recenti casi a suo tempo illustrati nei nostri editoriali, possono ben chiarire questi restauri nella terra di nessuno.
La Villa del Casale a Piazza Armerina (vedi recuperoeconservazione_magazine140) è stato uno dei casi che hanno acceso il dibattito di qualche anno fa. Le murature perimetrali dei resti romani sono state tutte rettificate con cordoli di calcestruzzo per portarle in quota, sono state collegate a questi con barre d’acciaio e al di sopra è stata costruita una struttura che emula le forme della basilica con tubolari di ferro, pannelli in estruso e intonachino di resina. A parte l’irreversibilità, la forte presenza di elementi plastici e incompatibili e l’aspetto realizzativo già a suo tempo abbondantemente criticato per la povertà tecnologica e la sciatteria delle finiture, ciò che tutt’ora perplime sono le forme architettoniche dell’esterno e soprattutto dell’interno. Le foto sono eloquenti e soprattutto illustrano come l’intervento si ponga fuori dalla cultura del restauro e forse più vicino a qualche scenografia.
La Basilica paleocristiana di Siponto a Manfredonia (vedi recuperoeconservazione 132) ha avuto i resti murari “preparati” come il caso precedente ma l’elevato architettonico, le murature, le coperture, l’abside sono stati costruiti con maglia metallica saldamente fissata alle preesistenze archeologiche. Non critico l’opera dell’artista (l’artista fa l’artista) ma il pensiero di chi l’ha invitato a creare un progetto di restauro architettonico perché di architettura si tratta anche se costruita in maglia metallica.
Per certi versi Siponto e Piazza Armerina perseguono scopi diversi ma simile è la libertà di estendere a piacere nel sito archeologico i concetti di ripristino, di anastilosi, di distinzione del nuovo dall’antico, di aggiunta contemporanea e di contrarre quelli che faticosamente la cultura del restauro ha maturato: la conservazione della materia, la compatibilità dell’aggiunta, la prevaricazione, la reversibilità e infine l’autenticità.
A proposito di come, nella terra di nessuno, si possa agire liberamente al di fuori del “comune senso del restauro architettonico”, senza confrontarsi con quanto la disciplina ha prodotto da secoli, si può collocare anche la recente “anastilosi” della Basilica Ulpia a Roma, dove il virgolettato sta a sottolineare la distanza tra il concetto di anastilosi definito dalle Carte del restauro e quello adottato per la nuova costruzione del partito architettonico romano. A parte la lucida e per quanto possibile poco invasiva soluzione statica e la magistrale esecuzione, le perplessità come nei casi precedenti, riguardano la legittimità di modificare reperti storico archeologici deposti da millenni, creare calchi o repliche per costruire un apparato scenografico mai esistito in quelle forme e destinato al consumo commerciale del turista poco informato e privo di cultura.
Poco distante da quest’ultimo, a Palazzo Valentini, quasi vent’anni fa Piero Angela e Paco Lanciano hanno ideato un percorso immersivo multimediale per rivedere com’era in origine una domus romana da poco scavata. Recentemente sono state sostituite e migliorate le tecnologie multimediali esistenti potenziando con nuove strumentazioni la visualizzazione di com’era duemila anni fa il sito confinante con il foro di Traiano. I reperti non vengono toccati e la tecnologia consente un’emozione assoluta, fa capire com’era il sito in origine e com’è passato attraverso i secoli, cosa non secondaria trattandosi di storie del lungo periodo. Certo, per alcuni questo può essere un eccesso didattico e didascalico, ma è pur vero che una volta spente le luci tutto torna ad una dimensione di rudere. Oggi attrae sempre di più l’effetto scenografico piuttosto che l’attenta e consapevole lettura dei reperti; il che significa lo svilimento dell’attività contemplativa e della cultura, ma anche qui ci si allontana e si entra in altre questioni.
Il caso di Palazzo Valentini è una delle tante soluzioni possibili, che è sì figlia della tecnologia, ma ancor prima di una cultura che privilegia la conservazione del reperto materiale, che rispetta la Storia nelle sue molteplici stratificazioni, che non si riferisce solo all’ “epoca di maggiore splendore” ma alla storia stratificata e che ha un sacro rispetto per il monumento e per come esso sia arrivato a noi rotolando attraverso i secoli. Penso sia questa la direzione che in questi casi dovrebbe prendere il progetto di restauro: minimizzare l’intervento sul corpo fisico del reperto e massimizzarne la godibilità, e di conseguenza la valorizzazione, con tutto ciò che ne segue.
Cesare Feiffer
Articolo pubblicato sul sito recmagazine.it
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