Il restauro come “capitale immateriale” dell’Italia

14 Jul 2021

di Gianluigi Colalucci, già docente dell’Istituto Italiano Arte e Restauro di Roma


L’enorme patrimonio d’arte e di architettura, che si è formato nell’arco di più di due millenni sul territorio italiano, ha costituito una voce importante nell’economia della società che ha prodotto quelle opere. Oggi, e nel futuro, quel Patrimonio continuano e continuerà a costituire la ricchezza materiale del Paese. Non a caso negli anni ’80 del secolo scorso si è parlato di “giacimenti culturali”.

Accanto all’enorme “capitale materiale”, l’Italia ha accumulato un vistoso “capitale immateriale” che attiene alla sfera della conservazione del restauro.

La creazione della ricchezza avviene in due momenti consecutivi: il primo è quello della realizzazione dell’opera, specialmente nel campo dell’architettura, il secondo è quello della conservazione. Vi è poi un terzo momento, sviluppatosi in maniera organica di recente, che consiste nella valorizzazione del manufatto stesso.

Come si è detto, l’insieme delle opere costituisce il Patrimonio, bene materiale, mentre la conservazione e la valorizzazione sono considerate beni immateriali, che concorrono alla ricchezza del Paese attraverso l’economia che mettono in movimento. Infatti si utilizzano tecnologie che richiedono un forte know-how che aumenta il valore aggiunto.

La pratica più antica è ovviamente il restauro puro e semplice, ovvero la restituzione dell’opera di ciò che,l’opera ha perduto nel tempo. Questa attività, fatta di operazioni a volte assai complesse, si è sviluppata nel tempo con tecnologie e metodiche sempre più aggiornate.

Ma la tecnica da sola non è sufficiente a realizzare un buon restauro: essa deve essere sostenuta e accompagnata da un pensiero forte le cui radici affondino nella filosofia. Ciò implica un costante rapporto concettuale dell’uomo con l’antico. Rapporto che non è stabile, ma è mutevole tanto quanto è mutevole il pensiero umano.

Ne deriva che ogni epoca ha avuto il suo modo di vedere e di servirsi dell’antico. Così vediamo che sin dal ‘400 gli architetti e gli artisti migliori, come Raffaello, Bramante, Brunelleschi, scavavano ed entravano nei sotterranei per copiare, prendere misure, scoprire antiche forme.

Raffaello, che studiò lungamente gli affreschi interrati della Domus Aurea di Nerone diede vita ad una nuova forma d’arte detta appunto “Grottesca”. Per l’Urbinate il ripristino dell’antico aveva un valore esemplare per diventare il supporto e la spinta conoscitiva verso l’antico degli artisti, architetti e studiosi in generale.

Studiando il suo modo di dipingere, sembra di capire che Raffaello aspirasse a realizzare una sintesi, o comunque un’armonia, tra passato e presente, tra tradizione e innovazione. Per questo siamo portati a pensare che si debba Raffaello il primo esempio di critica del restauro.

Per Leon Battista Alberti (morto a Roma ne 1472) la ricostruzione precisa dell’immagine voleva dire riuscire ad eguagliare e superare gli antichi. Dopo di lui e per quasi due secoli i restauri, specie quelli architettonici e scultorei, rispondono a questi criteri, adottati arbitrariamente, di volta in volta. Le scelte erano affidate a dotti studiosi, a magnati illuminati e a colti committenti.

I restauri architettonici erano diretti da architetti o artisti esperti di architettura, mentre la pittura e la scultura erano affidate ad artisti più o meno capaci. Vi erano poi artigiani geniali che compivano operazioni strabilianti, come quella di cambiare la tela originale ad un antico dipinto ad olio, o di sostituire il legno del supporto ammalorato con una nuova tela, anche di grandi dimensioni. Nel 1740 Charles De Brosses racconta, nelle sue lettere dall’Italia, di aver saputo di un falegname che a Roma poteva sostituire una tela ammalorata con una nuova senza danneggiare minimamente l’opera: egli diceva di aver appreso la tecnica mirabolante direttamente da san Luca, protettore dei pittori.

Molto meno fantasiose sono le relazioni della sostituzione di un gran numero di supporti di legno a dipinti importanti, come l’eccelsa Madonna di Folignodi Raffaello portata a Parigi da Napoleone nel 1797 assieme ad una grande quantità di altre opere, tra le quali spiccava la Trasfigurazione.

Picoult era il restauratore delle collezioni del Louvre ma, quando questo rapporto si interruppe, il Louvre incaricò il cittadino Hacquin di continuare il lavoro di restauro lasciato da Picoult. Ma Hacquinera un carpentiere e quindi orientò i suoi interventi più nel settore meccanico che in quello artistico, per questo eseguì un gran numero di trasporti di colore con grande successo.

A quel tempo era normale che ogni restauratore avesse i suoi segreti, così anche lui lasciò scritto il minimo indispensabile e nulla si sa di quale fosse il metodo che usava per fare i “trasporti”, ma per mantenere il mistero intorno al suo lavoro si parla di grandi fuochi accesi destinati non si sa a che cosa.

Alla fine del ‘700 a Venezia si sviluppa il centro di restauro diretto da Pietro Edwards, che si occupa delle pitture pubbliche. E qui comincia il dibattito sulle tecniche di intervento e sui concetti guida del restauro. Ai primi del XVIII secolo era ancora prevalente l’abitudine di completare in chiave moderna le parti mancanti dell’architettura e della scultura, la qual cosa indusse Winckelmann (1717-1768) a reagire contro questa pratica, dicendo che per esercitare il sentimento del bello è necessario per distinguere in una stessa figura il nuovo dall’antico.

A Roma ai primi dell’800 abbiamo due esempi interessanti che dimostrano come fosse possibile restaurare in modi diversi uno stesso monumento. Parliamo del Colosseo e degli architetti Raffaele Stern (1807) e Giuseppe Valadier (1823).

Stern congela nel grande sperone di mattoni il crollo delle parti esterne del Colosseo dovuto al terremoto del 1806, secondo una predisposizione romantica alla rovina, come a Palazzo Te di Mantova.

Circa vent'anni dopo Valadier si occupa della parte occidentale del Colosseo dove costruisce un numero decrescente di arcate e lo fa con mattoni, in modo che queste non si confondano con gli archi originali.

Valadier si pone quindi come il campione del restauro filologico: concetto teoricamente ineccepibile ma sempre a rischio di sconfinamento quando, si ricorre alla ricostruzione analogica.

Il dibattito sulla teoria del restauro era stato quasi sempre appannaggio del restauro architettonico, mentre sul restauro dei dipinti non era stato scritto quasi nulla, se escludiamo il periodo dei manuali alla fine dell’800.

I manuali costituivano una guida tecnica molto interessante, ma poco si occupavano dell'impostazione teorica del restauro. Il Manuale del pittore restauratore di Ulisse Forni (1866) è più scarno rispetto a quello del conte Giovanni Secco Suardo, Il restauratore dei dipinti, pubblicato in più edizioni sino al 1918, che resta quello più completo: quest'ultimo ospita una lunga prefazione del pittore Gaetano Previati, che esprime il suo pensiero in tema di restauro, ed è rimasto indispensabile e non superato sino all'inizio degli anni '50 del XX secolo.

In questo settore la grande svolta si è avuta con la fondazione dell'Istituto centrale del restauro di Roma (ICR) e con la pubblicazione del Fondamento teorico del Restauro nel 1950 di Cesare Brandi, direttore dell'ICR e fondatore del medesimo assieme a Giulio Carlo Argan.

L’Istituto nasce in un momento molto particolare, ovvero quando Giuseppe Bottai, ministro del governo fascista, recepisce i fermenti e le istanze, in materia di tutela e conservazione, portate all'attenzione dalla categoria dei soprintendenti. Per questo fa promulgare due leggi: la n. 1089 del 1° giugno 1939, pubblicata sulla "Gazzetta Ufficiale" n. 184 dell’8 agosto 1939, con il titolo Tutela delle cose d’interesse artistico o storico, e la legge n. 1240 del 22 luglio 1939, pubblicata sulla "Gazzetta Ufficiale n. 205 del 2 settembre 1939, col titolo Creazione del regio Istituto centrale del restauro presso il Ministero dell’educazione nazionale.

Questa legislazione è rimasta in vigore sino al 1999.

La teoria di Brandi, per la parte che si occupa di architettura, si aggiunge a Boito, Giovannoni, Riegl e poi a Carbonara e Marconi, mentre, per quanto riguarda la pittura e la scultura, resta ancora l’unica valida, salvo che per l'arte contemporanea. L’evento era stato inevitabilmente previsto dallo stesso Brandi.

La fondamentale novità della fondazione dell’Istituto centrale del restauro era costituita dalla presenza di un centro destinato alla ricerca scientifica esclusivamente nel campo del restauro, dove si dovevano testare i materiali, dove andavano studiate e codificate le metodiche di intervento. Altrettanto importante, se non di più, era la annessa scuola di formazione.

Questa è stata la prima volta che si è pensato di creare nuove generazioni di restauratori che avessero tutte una stessa preparazione di alto livello. Fu valutato che sarebbe stato necessario conseguire il diploma in 4 anni di corsi teorico-pratici. I corsi a numero chiuso prevedevano il più alto numero di ore per il laboratorio (11 mesi l'anno), poi vi era disegno, storia dell'arte, chimica, fisica e microbiologia.

Nel 1974 all'Istituto centrale del restauro fu affiancato l'Opificio delle pietre dure di Firenze.

Le materie teoriche sono aumentate con l'aumento dei centri di studio e soprattutto col passaggio all'insegnamento anche nelle università e nelle accademie.

L'importanza dell'ICR può essere sottolineata citando alcuni concetti tratti dal libro di Caterina Bon Valsassina Restauromade in Italy: "L’alto contenuto innovativo del progetto culturale e del modello organizzativo dell’ICR ha suscitato interesse anche nel campo della sociologia" sino al punto di inserire l’ICR fra i gruppi creativi europei (1850-1950), come lo Staatliches Bauhaus, il Wiener Werkstätte, il gruppo Bloomsburg e il gruppo di via Panisperna.

L’importante riconoscimento si deve al sociologo De Masi e agli studi di Giancarlo Buzzanca e Paola Cinti.

Ricordiamo che di regola il restauratore di un tempo era autodidatta o si formava nelle botteghe. Questa formazione poteva essere ottima, ma rischiava di essere lacunosa perché priva delle materie scientifiche.

Nonostante uno o più centri di studio e di ricerca, molti dei progressi tecnici si sono dovuti all’esperienza sul campo.

Un paio di esempi per chiudere: il restauro degli affreschi di Michelangelo in Cappella Sistina e il restauro degli affreschi di Buffalmacco nel Camposanto monumentale di Pisa.

Il primo è durato 14 anni, dal 1980 al 1994, durante i quali sono state sviluppate e aggiornate soprattutto le tecniche di gestione di un restauro quotidianamente sotto l’occhio vigile del mondo intero, essendo questa l’opera d’arte più nota e amata al mondo. Un gruppo di studiosi e artisti italiani e americani ha dato il via ad una durissima polemica contro la pulitura degli affreschi. Questo ci ha insegnato ad avere rapporti con stampa, radio e televisione. Inoltre abbiamo fatto centinaia di conferenze in tutto il mondo (dal Canada all'Argentina, da Cuba alla Russia, sino in Australia) per illustrare e valorizzare il nostro lavoro.

La pressione sulla Santa Sede era diventata così forte che la Segreteria di Stato chiese la formazione di un gruppo di lavoro al più alto livello mondiale che esaminasse il lavoro fatto, lo giudicasse e lo seguisse sino alla conclusione.

II gruppo di studiosi fu il seguente: André Chastel, Sidney J.Freedberg, Pasquale Rotondi, Giovanni Urbani, Umberto Baldini, Carlo Bertelli, Christoph Luitpold Frommel, Kathleen Weil-Garris Brandt, Michael Hirst, Matthias Winner, Eve Borsook, Norbert S. Baer, Pierluigi De Vecchi, Paul Schwartzbaum, Alfio Del Serra.

Il gruppo espresse un giudizio positivo e il lavoro fu portato a termine.

Per quanto concerne le tecniche e la ricerca, va ricordato che nel 1986 fu collocato sul ponteggio il computer grafico Apollo DN3000Workstation per l'archiviazione dei dati sullo stato di conservazione e sulla tecnica esecutiva. Agli strumenti ottici di indagine si aggiunsero le indagini chimiche, stratigrafiche, XRF, petrografiche, colorimetriche, degli inquinanti chimici aerodispersi, microbiologiche, e le analisi delle acque d i lavaggio. Si realizzò la fotogrammetria della volta e del Giudizio. A tutto questo apparato, e all'ampia documentazione fotografica a colori e in bianco e nero, si deve aggiungere la costante ripresa cinematografica dell'operazione fondamentale della pulitura. Quest'ultima, assolutamente irripetibile ed eccezionale, è stata possibile grazie ad un accordo della NTV di Tokyo con il Vaticano.

Tra il 2010 e il 2015 è stata sviluppata una tecnologia complessa especifica per evitare che gli affreschi trecenteschi del Camposanto monumentale di Pisa subissero ilfenomeno della condensa, oggi più frequente di alcuni anni fa.

Gli affreschi in questione furono gravemente danneggiati il27 luglio 1944 a causa di una cannonata sparata dagli Alleati sul nemico in fuga.

Un lungo restauro li salvò dalla perdita totale. A quel tempo furono incollati su velatini e poi su pannelli di Eternit, un agglomerato cementizio di largo uso rivelatosi nel tempo cancerogeno e dannoso per gli affreschi perché tenacemente irreversibile. Si decise quindi di togliere i dipinti dai pannelli di Eternit, iniziando così un nuovo lungo restauro.

Intorno al 2010 fu preso in esame il problema della formazione della pericolosa condensa. Dopo quasi un anno di studi e di prove tecniche è stato deciso di applicare gli affreschi su pannelli rigidi di Aerolam e di dotarli a tergo di un tessuto termico elettrocomandato, il tutto montato su telai e controtelai di alluminio. Al centro del Camposanto poi è stata collocata una piccola stazione meteorologica collegata con il CNR di Bologna: il sistema è in grado di prevedere la possibilità di condensa con un anticipo tale da far scaldare i teli che alzeranno la temperatura della superficie degli affreschi di uno o due gradi, quanto basta per impedire all'aria fredda di condensarsi in acqua sull'affresco.

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